Mr Riccio, inviato speciale alla X Edizione del Catania Film Fest, ha avuto modo di seguire da vicino le proiezioni riservate alla Giuria Giovani dei lungometraggi e cortometraggi indipendenti europee in concorso.

I giovani giurati sono stati invitati a redigere delle recensioni sui film visionati.

Ecco una selezione delle sue preferite.


La brutta verità (Die wahre Schöneit)

Tolstoj ci avvisa da sempre della singolarità delle famiglie infelici: ciascuna lo è a modo proprio, e chissà che non si riferisse all’eredità di disincanto, allo strappo da un’infanzia sognante che reciprocamente un uomo ed una donna possono regalarsi e declinare in varia maniera.

“La brutta verità” di Krishna Ashu Bhati, il cui titolo tedesco originale è “Die Wahre Schöneit”, tesse la propria trama attraversato dalle conseguenze di quel sogno d’infanzia disilluso, incancrenitosi sulla pelle dei personaggi diventati adulti, riflesso sui più giovani. In primo piano è specificatamente la mediocrità dell’uomo incapace di assumere il proprio ruolo di adulto, responsabile del benessere altrui, che calámita l’infelicità dei familiari in un crescendo narrativo che condurrà ciascuno a scelte inesorabilmente autodistruttive, significative della fragilità dei rapporti umani, di quelli familiari e di quello eternamente, talvolta malsanamente misterioso tra uomo e donna.

Il racconto che ci si dipana dinanzi proviene dal repertorio più classico della vita borghese infelice ed ipocrita per come ci è stata narrata, ad esempio, da Sam Mendes: all’interno della vita matrimoniale di una coppia si è estinta ogni componente erotica e a nulla valgono le scene in cui Theo e Mona conversano sul divano durante la sera, sorseggiando vino. È un inganno tanto quanto la loro invidiabile casa, castello di cristallo in cui vivono insieme ad Hanna, figlia di Theo, o Teddy, come gli piace emblematicamente farsi chiamare, e nipote di Mona, la cui sorella, suicidatasi, era madre della ragazza: una sorta di peccato originale che tutti, in special modo Hanna, sentono gravare su di sé e da cui sempre più nel corso del film pare si sentano orientati.

Theo si definisce un artista, nonostante da tempo non riesca ad esprimersi né con la fotografia né con la poesia; e forse è in un tentativo disperato di essere contemplata dal padre e suscitarne l’ispirazione che Hanna nutre il desiderio di venire da lui ritratta in pose da modella. Mona è un avvocato, ma da tempo un incidente invalidante alla gamba la costringe in casa; soprattutto ha sviluppato un grave alcolismo. Nessuno sembra riuscire ad aiutare né lei né Hanna, donne sole ed ignorate da un uomo rassegnato ad interpretare la parte del marito e del padre distratto che tira avanti senza tentare nulla di più.

A rompere il sottile equilibrio è l’irrompere in casa di Alina, ragazza avvenente di cui Theo si invaghisce. Una sottotrama relativa al figlio adolescente dell’amico del protagonista si annoda alla prima ed il nodo è dato dalla specularità del ragazzo rispetto all’uomo: entrambi in fondo accecati dal desiderio della bellezza femminile e disposti a qualunque tattica di fascinazione pur di appropriarsene, a costo del dolore di chiunque, unico obiettivo effettivamente raggiunto. Eppure ciò che strania lo spettatore dinanzi ad una vicenda stereotipata dalla tradizione è l’espressione di un tale dramma per mezzo di atmosfere che paiono agire per contrasto, a cominciare dalla luminosità della maggior parte di scenari contribuenti alla realtà dei personaggi, fino all’ironia farsesca dell’inizio, quando ci sembra di assistere ad una commedia, ma che gradualmente si tinge di tinte sempre più fosche e se pure continuiamo a sorridere per Mona che russa distogliendo Theo dall’estasi onirica, nel frattempo la stessa scena muta, sostenuta da un’atmosfera gradualmente sempre più cupa.

I dialoghi stessi non indugiano mai troppo su una riflessione esistenziale e percepiamo lo stato d’animo di ognuno da un’espressività innaturale, caricata e grottesca degli attori, nel caso di Theo in particolare. Il senso di assurdo generale assume massima concretezza nel racconto dei sogni scatenati da Alina nel protagonista, uniche scene in cui i colori cupi della notte trovano corrispondenza con un inconscio buio, in balìa di se stesso;  del tormento, nelle medesime occasioni, dicono anche le inquadrature ravvicinate del corpo e del viso di Alina, che indugiano su di lei dilatando il tempo, sospendendolo in un’atmosfera talvolta macabra.

In prossimità della conclusione crolla ogni apparenza residua, i nodi vengono al pettine, il ritmo diviene più incalzante grazie al montaggio che fa da raccordo tra la disperazione di Hanna che in un atto estremo tenta il suicidio, sentendosi tradita da amici e famiglia, la disillusione di Theo a cui si manifesta la semplice brama di un padre in Alina, recita che lui non può interpretare; gli è dato, ammesso che ne sia in grado, di essere il padre di sua figlia, che corre ad assistere in ospedale mentre il montaggio alternato ci mostra l’epilogo tragico di Mona, perché “la brutta verità” è che siamo il risultato della somma di ciò che facciamo e che lo sono addirittura gli altri, la brutta verità è che come in una tragedia di Sofocle nessuno in questo film sembra poter scampare al destino che qualcun altro gli ha lasciato in sorte tramite il proprio agire e ancor di più il non agire. La triste, brutta verità è che possiamo solo sperare che Theo e sua figlia si strappino vicendevolmente al vuoto che ha già soffocato alcuni familiari, capendo entrambi che la felicità non è la sospensione in un sogno irrealizzabile (che si tratti dell’ambizione di fare la modella o di un’improbabile relazione), che è invece ancorarsi alla terra e poi gli uni agli altri, così da poter cucire insieme quei pochi, scarsi brandelli che permettano di non vagare nudi del tutto, pur nell’irriducibilità di una ricerca costante che ci fa vivere umanamente fragili.

di Martina Seminara

Catania Film Fest
da “Die wahre Schönheit” di Krishna Ashu Bhati


Vista

Il cortometraggio “Vista” di Gergely Lorinczi lavora delicatamente – quasi in punta di piedi – sulle barriere apparentemente insormontabili che si creano con facilità tra genitori e figli, sulle incomprensioni e sui disagi che conducono o sono causati da un’assenza di comunicazione e dialogo, infine sulla difficoltà di rimediare a questi silenzi. 

La debolezza umana è qui al suo apice: la mancanza di coraggio e il timore nel compiere il primo passo verso una riappacificazione, in un ciclo senza sosta di silenzi, di parole e gesti mancati e mancanti. Le parole sfuggono, non ci sono dialoghi, manca la condivisione di un contesto necessario alla comprensione della situazione cardine del cortometraggio: l’evidente litigio e il conseguente allontanamento tra un padre e un figlio.

Insieme alla sceneggiatura anche la fotografia, le ambientazioni e la regia suggeriscono il senso di vuoto: immagini di un ambiente lavorativo spoglio, colori freddi, camera a spalla che segue i personaggi e riflette il disagio, tramite i sussulti e i tremori del regista che sono poi anche quelli dei protagonisti e di chi li osserva.

Solo il potere dell’immagine riesce a restituire un finale che colma il vuoto e il silenzio dei precedenti 13 minuti di cortometraggio: il padre testardo compie finalmente un passo per avvicinarsi al figlio e, durante una cena anch’essa basata sulla condivisione tacita di un disagio di cui non conosciamo l’origine, lascia che la musica preferita del figlio colmi il silenzio, riempiendo la stanza di speranza.

di Aurora Spampinato

da “Vista” di Gergely Lorinczi

“Nel blu” di Mounir Derbal

Guerino, un pescatore solitario, vive vicino al vecchio faro di Fiumicino, in un paesaggio devastato, sporco e abbandonato, avendo poco o nulla con sé. È un rifiuto sociale in mezzo ai rifiuti del mondo, che vengono ben evidenziati dalla macchina da presa.

La notte vive un’altra vita, una vita passata con ricordi però ancora troppo freschi e dolorosi. Durante i suoi sogni estremamente vividi sembra affrontare una battaglia in mare aperto, cercando di salvare qualcuno che in passato non è riuscito a salvare. Urla e si dimena nel sonno, guidando navi che non esistono più e attraversando mari impetuosi e irrequieti come il suo stato psicologico.

L’agitazione del protagonista viene resa in maniera peculiare tramite alcuni espedienti registici: primissimi piani dei momenti di maggiore turbamento di Guerino – interpretato da un intenso Giorgio Colangeli – movimenti di macchina improvvisi e disturbanti durante i sogni del protagonista.

Alla fine, un punto di non ritorno: Guerino invita a reagire, a tuonare, a urlare ciò che non ci sta bene, o meglio, ciò che non dovrebbe stare bene a nessuno. Il protagonista urla con smania a un mare inquieto, un mare che racconta delle storie che vengono perdute tra le onde, di corpi che rimangono giù nei fondali, persi.

È la calma, dice Guerino a un certo punto del film, a spaventare più della furia.

di Aurora Spampinato

da “Nel Blu” di Mounir Derbal

The Ugly Truth

Mutating genres are something that makes cinema basis vibrate and make you think about its forms and sense. Therefore, we can consider them as tools that, while distorting realities, give new perspectives about a subject which is part of our own one. That doesn’t happen with ‘The ugly truth,’ a pretentious film that tries to tell us too much but finishes telling us nothing.

The narrative is infuriating, with changes between scenes that don’t make sense at all. You don’t actually know if the director is trying to suspend the story with them or if it is directly suspended at the beginning of the film. The photography is just as kitsch as the screenplay.
One can’t tell if you are watching a story against sexism that is trying to de-construct (one more time) toxic masculinity, or just a sexist story about a ridiculous man and the emotionally dependent and completely plain women that surround him.

On the other hand, the actors don’t play too badly their role, but they are also possessed by the paroxysmal environment that impregnates everything in this film. The characters evolve, but we don’t know why they are evolving.
Despite all of that, various ideas could have worked, like the references to Nabokov or Goethe, and some metaphors such as the continuous presence of sharp objects. The former just makes the film even more pretentious, and the latters are just there to let you wish to enter into the screen and finish this torture.

by Pablo Joaquín Pérez Sotorrío

da “Die wahre Schönheit” di Krishna Ashu Bhati

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